Resistenza
Il Cremlino non sembra interessato a fermare i suoi piani, come spiegò già Mario Draghi quando riferì di un colloquio telefonico avuto col presidente Putin: “Gli ho detto ‘la chiamo per parlare di pace’, e lui mi ha detto ‘non è il momento’. ‘La chiamo perché vorrei un cessate il fuoco’, ‘non è il momento’. ‘Forse i problemi li potete risolvere voi due, perché non vi parlate?’, ‘Non è il momento”.
Rifiutarsi di appoggiare la resistenza ucraina (la “Resistenza”, quella che festeggiamo il 25 aprile…) significa attendere che Putin completi l’opera di annessione del Paese. Forse poi pagheremo meno per l’energia, ma poi con che coraggio nel Giorno della Memoria potremo visitare il binario 21 alla stazione di Milano, fermandoci a contemplare la scritta “Indifferenza”? Schierarsi dalla parte delle vittime comporta un prezzo che c’è chi ritiene inopportuno pagare, per difendere poi un popolo lontano che forse, come certe vittime di violenza, alla fine se la sarebbe pure cercata con qualche provocazione. Ma non è necessario dipingere Zelensky come un santo o negare l’esistenza di neonazisti in Ucraina (ce ne sono anche in Russia e persino in Italia) per stare dalla parte delle vittime. La necessità di proteggere le vittime dai carnefici non deve aver nulla a che fare con le qualità morali della vittima. Non si difendono le vittime di aggressione solo quando sono irreprensibili e perfette.
Disarmare l’Ucraina equivale a destinarla alla disfatta e alla resa, senza arrivare comunque alla pace. Perché dopo Crimea, Georgia, Cecenia, anche l’Ucraina potrebbe essere solo una tappa intermedia, magari per ripristinare la vecchia Unione Sovietica.
La ritirata dei russi ha lasciato dietro di sé cadaveri, fosse comuni, camere di tortura che dimostrano cosa significherebbe la pace di Putin. Laddove è arrivato, laddove la resistenza e le armi occidentali non sono riuscite a fermarlo, l’esercito russo ha stuprato le madri davanti ai figli, ha sparato a vecchi in bicicletta, ucciso civili sparando sulle auto o travolgendole coi carri armati, ha torturato uomini, donne e bambini. Ha bombardato obiettivi civili, fermate di autobus, stazioni, quartieri residenziali, centri commerciali, parchi giochi, scuole, ospedali, infrastrutture e centrali elettriche per assiderare e affamare il popolo ucraino.
Milioni di ucraini delle zone occupate dai russi, tra i quali decine di migliaia di bambini, sono stati deportati in Russia, perché questa “operazione speciale” di Putin prevede anche la rieducazione forzata della popolazione ucraina. In particolare bambini sottratti ai genitori per fargli imparare il russo e dimenticare la lingua e la storia della propria nazione. Nell’invasione dell’Ucraina la “liberazione“ del Donbass c’entra fino a un certo punto, visto che da anni Putin costruiva il suo progetto di genocidio. A febbraio di un anno fa ha infine annunciato che le truppe russe sarebbero entrate in Ucraina perché considerata uno Stato “artificiale”, dichiarando quindi guerra alla cultura, alla lingua e all’identità dell’Ucraina, di cui la Russia nega l’esistenza. Rinnegando così il referendum del 1991 in cui il popolo ucraino aveva votato per l’indipendenza da Mosca a stragrande maggioranza in tutte le province, incluse la Crimea e il Donbass. La sottomissione dell’Ucraina deve perciò avvenire attraverso la cancellazione e la “rieducazione” del suo popolo e la distruzione delle testimonianze della sua cultura. La denazificazione, l’obiettivo con cui Putin aveva giustificato l’invasione, non significava altro che questo. Il presidente ucraino è ebreo, nel Parlamento ucraino c’era un solo deputato di estrema destra, che è stato anche espulso e il cui partito è stato sciolto.
(2 – Continua)