Esempi basic di comunicazione mediatica.
Primo scenario: Un abbraccio. Baci. Cara, caro. Condivido tutto quello che dici. E giù cuori a non finire.
Secondo scenario: parolacce irripetibili, o più elegantemente: signore, lei mi pare un cretino, e non scriva più sulla mia pagina.
E poi ci “banniamo”, escludendoci l’un l’altro dalla comunicazione.
Che genere di relazione stiamo praticando da che comunichiamo assai di più grazie ai vari telegram, tiktok, twitter, facebook, instagram etc etc? Poco virtuosa, molto viziosa, non solo nel senso che ci contorciamo nelle nostre voglie onanistiche credendo di spartirle con personaggi che nella maggior parte dei casi non sono quel che dicono di essere nella realtà virtuale, ma anche perché assomiglia sempre di più a un cerchio chiuso, senza sbocchi. E, come diceva Eugene Ionesco: “Accarezza un circolo, e diventerà vizioso”.
La verità è che la comunicazione ha fatto un percorso strambo: dal semplice parlare de visu, per lettera, al telefono, dicendosi di sé, dei propri desideri, necessità, fatti, per accogliere consigli e reazioni dall’altro, entrando in intimità a seconda del grado di vicinanza con l’interlocutore di turno, è passata a sbandierare a un sedicente “pubblico” i propri sentimenti senza curarsi di quel pudore che ammantava la comunicazione interpersonale, e poi è tornata indietro, trasformandosi in una partecipazione di sé asettica e fredda, veicolata da quella serie di singulti automatici che sono gli emoticon o gli abbracci e i baci sparsi come capita, per scaldare quel pizzico di sé che si desidera cedere al proprio ascoltatore.
Passiamo serate intere a sentire racconti a volte già sentiti in cui l’amico di turno sfoggia i propri meriti scientifici, letterari, mette in mostra la propria cultura, e così è sempre stato, ma poi racconta anche stralci della propria storia più o meno lunga, soffermandosi su dettagli insignificanti : Ricordo…. era il 3 o poteva essere il 4 aprile del 1985, Antonietta indossava un twin-set bianco che aveva comprato da Schostal – ai tempi Schostal stava in via del Gambero, c’è ancora?, che poi allora il twin-set si chiamava Giulietta e Romeo, o almeno mia nonna lo chiamava così… – L’amico ha già usato una cinquantina di parole e ancora non ha nemmeno incominciato a raccontare la storia. Ma poi la storia è davvero così importante, o raccontarla a qualcuno ci serve solo per sentirci meno soli? E dentro quella storia ci siamo noi veramente?
Dove voglio arrivare? A dire che il solco che abbiamo scavato – o che i social, la nostra bella società dei consumi consumati hanno scavato – tra noi e il prossimo è così profondo da essere diventato invalicabile. Vero è che mai come dalla fine del Novecento abbiamo dato un posto importante alle emozioni, tanto che le squaderniamo a ogni piè sospinto e sono diventate il motore del nostro agire, (in realtà lo sono sempre state, ma prima non lo sapevamo), ma abbiamo forse dimenticato che le emozioni da comunicare prevedono anche una ricezione, non un solipsistico confronto – (la scrittura è un ottimo veicolo per oggettivare il nostro sentire, e si può usare un diario segreto, il qualificativo aiuta a chiarirne la funzione) -, non una confessione senza scampo – (in quel caso meglio affidarsi a un professionista della psiche) – se si desidera comunicare con gli altri, c’è bisogno necessariamente che ciascuno si accolli una quota di quella comunicazione: ascolto e poi comunico affinché tu mi ascolti.
Così, come ho l’impressione che stia andando ora, nel deserto affollatissimo che viviamo, tra le informazioni spaventose che ci propinano i mass media e le chiacchiere fluviali sconclusionate dei vicini/parenti/conoscenti/amici rischiamo di galleggiare in una solitudine sempre più dolorosa e autoreferenziale, trasformandoci, nostro malgrado, in diffusori di malessere. Lavoriamo su noi stessi per migliorare la comprensione del testo interno.