Intervista al poeta MARCO GIOVENALE

INTERVISTA a MARCO GIOVENALE

Marco Giovenale è tra i fondatori del sito di materiali sperimentali gammm.org (2006). Vive a Roma, dove lavora. Tiene corsi di letteratura per  centroscritture.it. È redattore di vari spazi web italiani e stranieri. Cura la collana “SYN – scritture di ricerca” per le edizioni IkonaLíber.

Tra i suoi libri di poesia: La casa esposta (Le Lettere, 2007), Shelter (Donzelli, 2010), Storia dei minuti (Transeuropa, 2010), In rebus (Zona, 2012, con i testi vincitori del Premio Antonio Delfini 2009), Maniera nera (Aragno, 2015), Strettoie (Arcipelago Itaca, 2017), Delle osservazioni (Blonk, 2021). In prosa: Quasi tutti (Polìmata, 2010; edizione definitiva: Miraggi, 2018), Il paziente crede di essere (Gorilla Sapiens, 2016), Le carte della casa (Edizioni volatili, 2020), La gente non sa cosa si perde (TIC, 2021). Suoi testi sono antologizzati in Parola plurale (Sossella, 2005), Nono quaderno di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2007), nel volume del Premio Antonio Delfini 2009, Poesia degli anni Zero (Ponte Sisto, 2011), in Nuovi oggettivisti (Loffredo, 2013) e Roman Poetry Festival (Ponte Sisto, 2019). Con i redattori di gammm è nel libro collettivo Prosa in prosa (Le Lettere, 2009). Per Sossella nel 2008 ha curato una ampia raccolta antologica di testi di Roberto Roversi. Ha tradotto Billy the Kid, di Jack Spicer (La camera verde, 2014). Dal 2003 il suo sito è slowforward.net

1) Che cos’è la poesia? Quale funzione ha nella tua vita?

Credo che l’impossibilità strutturale di qualcosa come una definizione di cosa sia la poesia, di fatto, costituisca una buona definizione di cos’è la poesia. Fuor di paradosso, più che “essere”, direi che la poesia – o meglio ancora l’idea che ce ne facciamo – evolve, muta con i linguaggi e le società che intendono delimitarla, scriverla, dirla. La sua inafferrabilità è, a buon titolo, proverbiale. In ogni caso, sfugge a ogni metafisica e solo una fenomenologia di buon senso di tanto in tanto sembra articolarne i caratteri. E meglio ancora: come altre pratiche umane, la scrittura e la dizione testuale sono azioni del e sul “senso-non-senso”, e questo sollecitano e modulano in noi. Il tempo, le lingue e i contesti riorientano le attese e le riuscite di queste sollecitazioni e modulazioni. Gli ultimi 60 anni, numero per me non casuale, hanno visto una radicale mutazione dei modi con cui noi (=occidentali, in linea di massima) percepiamo e produciamo testualità, e abbiamo a che fare con il suo senso-non-senso, appunto. Tanto da far pensare a una specie di cambio di paradigma in atto, non solo per la poesia. Questo, al punto da far pensare a più di qualcuno (e io sono tra questi) che la parola “poesia” – già a far tempo dal 1961 almeno – possa essere non illegittimamente considerata troppo restrittiva, per non dire fuori quadro, se si vuole descrivere e contenere con buona approssimazione e adeguatezza l’arco amplissimo delle realizzazioni e sperimentazioni che proprio il Novecento ha avviato ed espanso. Quanto ho appena scritto rende un po’ bizzarro forse, e particolare, per me, ragionare su quale posto abbia la poesia nella mia vita. Senza la poesia, intesa in senso stretto e ‘classico’, non avrei probabilmente avuto accesso al lato letterario (e parzialmente novecentesco) della produzione del senso, e avrei semmai forse percorso le vie della fotografia, della musica, o altro. La poesia mi ha indirizzato verso la parola complessa, scritta e detta, in particolare, e più in generale verso la parola spezzata. Frammentata, scissa, e poi ancora: dubitativa, critica. (In crisi).

2) Gli artisti hanno dei maestri di riferimento, quali sono i tuoi?

C’è un tempo non interminabile per formarsi (anche se ovviamente non si smette mai di imparare). Da un certo punto in poi ci possono essere sodali e autori importanti, ma probabilmente non maestri in senso stretto. Per ragioni biografiche noiose da dire, gli effettivi veri maestri per me sono stati di carta, ossia libri, testi. Il confronto con autori viventi è venuto dopo. Dunque i maestri sono stati Borges, Montale, Eliot, Cortázar, Kafka, Dickinson (in ordine di apparizione, ma per importanza dovrei dire Eliot, Montale, Cortázar: ed è quest’ultimo ad avermi ‘salvato’ da tutti gli altri). Dopodiché Rosselli, Roversi, Bene, Villa, Mesa, Sanguineti, Costa, Balestrini. Dialogo particolarmente intenso, nel tempo dei vent’anni: con Roversi. Nel tempo dei trenta: con Mesa. Poi con Balestrini. Di Rosselli ho seguito con attenzione assoluta libri e reading, vivendo a Roma, ma non ho mai avviato un dialogo diretto, per mia timidezza.

3) Ci vuoi parlare dell’ultimo libro che hai pubblicato?

Due libri in effetti: usciti quasi in contemporanea… Sono La gente non sa cosa si perde (TIC Edizioni, Roma 2021) e Delle osservazioni (Blonk editore, Pavia 2021). Devo dire che difficilmente si possono immaginare testi più diversi uno dall’altro. Delle osservazioni, summula di un periodo di versi ossia di poesia-poesia (“postlirica”, direbbe l’amico Paolo Zublena), è stato sollecitato e accolto dal generosissimo Andrea De Alberti per la sua collana Fuorimenù. Ha tutti i connotati del testo energicamente persuaso della non scindibilità di suono e senso. Lavora su cinque piani tematici che vengono direttamente da due opere in particolare (Criterio dei vetri, 2007, e Storia dei minuti, del 2010), e sono: la percezione complessa/franta del reale, il “popolo minuto”, la malattia (non solo mentale), la dislocazione/spostamento dato da una serie di scasamenti, e infine alcune forme contraddittorie di separazione (obbligata o voluta) dal consesso sociale. Non intende fare “poesia civile” né scivolare in un realismo o in una retorica buonista: al contrario. Non so se sia riuscito, ma l’intento sarebbe quello di spaccare il parlare per trovarci cose che non dovrebbero starci. (Un po’ come succede con l’esperienza in generale: con la percezione, appunto). La gente non sa cosa si perde ha invece a che fare con la prosa anche quando le frasi sono tagliate a mo’ di versi. E appartiene a una fase del mio lavoro testuale, cresciuta direi soprattutto dal 2005 con una serie di prose in rete (su differx.blogspot.com  e in numerosi siti anche non italiani), continuata poi con Prosa in prosa (2009) e con l’uscita di altre opere via via per tutto il decennio 2010-20 appunto. Si tratta di materiali che non lavorano su temi troppo diversi da quelli di Delle osservazioni, ma lo fanno con un’aggiunta di distanza (e distanziamento da un io che voglia darsi come dittante) che sollecita probabilmente e opportunamente espressioni come “postpoesia”, “letteralismo”, “oggettivismo” e la già nominata “prosa in prosa”. Sono testi estremamente più lineari, leggibili (e forse perfino umoristici) rispetto alle poesie. Ma la loro complessità e – mi auguro – il valore si colgono nel fraseggio, negli sgambetti a un corso sillogistico del discorso, nei meccanismi iterativi, nella descrittività a volte sul filo del paradosso, e – not least – nell’esecuzione ad alta voce.

4) Hai un nuovo lavoro in programma?

Ho tre opere praticamente completate e in attesa di editore. Non che non abbia editori: solo, devo aspettare cosa mi dicono, e possono metterci tempo, tanto (può anche darsi che me le rifiutino, sia chiaro). Per correttezza nei loro confronti non ne parlo, dunque.  Proseguo poi su due versanti paralleli, con inediti a cui vado mettendo mano: in poesia (o qualcosa che le assomiglia) penso a una serie non necessariamente smilza di addenda al libro Strettoie che l’editore Arcipelago Itaca ha pubblicato qualche anno fa nella collana Lacustrine diretta da Renata Morresi. Sull’altro versante, infine, non mi allontano troppo dalla prosa in prosa e dai territori pressoché sterminati che ogni volta apre a chi ci si avventura.

5) Per chiudere l’intervista, ci regali una poesia che per te ha un significato speciale ?

Molto volentieri. Questa – che in realtà è una prosa – viene da Le carte della casa, che Giorgiomaria Cornelio e Giuditta Chiaraluce hanno ospitato nel 2020, lo scorso anno, nella collana I cervi volanti della loro iniziativa esoeditoriale Edizioni Volatili:

il passato o il padre è la cavità o ruggine, sta per essere o è stata già ogni momento finita ancora, ha quei confini, è una corrosione che ha lasciato un piccolo ponte soltanto e se cede è chiusa, è stata comunque l’ossidarsi quella storia, cubo rosso di casa, rosso mattone e ma non di mattoni, sta per portarsi, si sfalda, mangiata è mangiata, dall’acqua imminente o no o sì, vai a sapere, è un passato così lontano, quel “questo” coeso per gli anni della guerra: venivano spiccati i pezzi dei morti dalle mine dai rami. la coltura. che l’ossigeno. che l’ossessione. un qualsiasi nome. simile. è: il passato del padre, le sibilanti, le pallottole. però è riuscito, grazie a qualche prete, a darsi spazi. differenza, scampare.

adesso è la volta cranica nera. l’interno con l’anforetta etrusca, lo sportello marrone del camino interrotto. appena dieci anni, prima, appena dopo. e: le mistificazioni di para, la catasta di apparecchi trasmittenti, bobine, clessidre, rame, ferro dolce, massa, tubi, di tv, le vhs smagnetizzate su: licantropi, ufo, miracoli, ciliegi. i diedri di polvere nella nebbia fuori. il camion militare è smontato, è per la centrale verde oliva, mimetica, portata qui con la gru. scherma i raggi cosmici. o è un gruppo elettrogeno. dentro. brutte copie di deposizioni, stucchi di barocco, steccati, cuoi, legatura spaiata, manca il volume di tavole, manca un’incisione: una donna altissima che pulisce con ira via dal tavolo il modello in balsa di una casa