INTERVISTA a GIOVANNI PARRINI
Giovanni Parrini nasce a Firenze, città in cui vive e lavora come insegnante nelle scuole superiori. È autore di varie opere di poesia e pubblica, occasionalmente, recensioni e contributi teorici in riviste (Caffè Michelangiolo, Poesia, L’immaginazione, Semicerchio) e in siti web (Letteratitudine, Italian Poetry, L’estroverso). Per le scuole superiori, ha curato cicli di incontri riguardanti l’esperienza della poesia nella società tecnologica. Alcuni suoi testi sono stati tradotti in lingua inglese da Dominic Siracusa (UCLA, Department of Italian) e pubblicati sul numero 43 della rivista di arte e cultura “Equipeco”. Formalmente, l’autore si affaccia alla letteratura a quarantasette anni, con Scorribande natalizie, una poesia pubblicata il 17 gennaio 2004, sul numero 401 di “Specchio”, inserto mensile de La Stampa, nella rubrica “Scuola di poesia”, allora tenuta dal poeta e critico milanese Maurizio Cucchi. Due anni più tardi e quasi contemporaneamente, escono il primo libro, Nel viaggio (Lietocolle, Faloppio, 2006), e Tra segni e sogni (Manni, Lecce, 2006). Nel 2011, presso Interlinea di Novara, esce Nell’oltre delle cose. Con Valichi (Moretti&Vitali, 2015) l’autore vince il Premio nazionale letterario Pisa ed entra inoltre nella terna finalista del Premio Viareggio-Repaci, vincendo il Premio Viareggio-Giuria. L’ultima raccolta di poesie e prose, L’occasione e l’oblio (Stampa 2009, Varese), è semifinalista all’edizione 2020 del Premio Viareggio-Repaci. Fra il penultimo libro e l’ultimo, l’autore pubblica sulla rivista mondadoriana Nuovi Argomenti la silloge Tra poco nell’aurora e poi, quasi contestualmente all’ultimo libro, Antico cascinale, una breve silloge che di esso fa parte, apparsa su “Gradiva”, rivista internazionale di poesia italiana nata nel 1976, oggi pubblicata dall’editore fiorentino Leo Olschki. Ultimamente, ancora sulla rivista Nuovi Argomenti – sezione Officina Poesia – è uscita la traduzione de Il bardo, ode pindarica del poeta britannico Thomas Gray, corredata da una serie di note esplicative.
1. Che cosa rappresenta e quale funzione ha, nella tua vita, la poesia?
La domanda si presenta come buona occasione per tentare una piccola ricognizione del significato che quest’arte possiede, in generale e, in particolare per la mia esistenza. La poesia è, per tutti – intendendo, cioè, anche coloro che non sono consapevoli della sua portata storica e della sua forte funzione comunicativa – una forma necessaria a dare spazio a quella componente di indeterminatezza che l’animo umano cerca, e anzi richiede, da sempre. La riprova di questa affermazione risiede nell’odierna, apparentemente inarrestabile, proliferazione di scritture poetiche, le quali niente altro rappresentano che una reazione, individuale e collettiva, a una società sempre più basata sulla tecnica e infulcrata su quello che potrei chiamare nudo determinismo tecnologico (quando non addirittura tecnocratico), che si pone come panacea per la risoluzione di importanti problemi quotidiani e, velleitariamente, perfino di quelli etici. Una società, per così dire, molto ingegnerizzata ha innegabili pregi, sì, ma effetti collaterali subdoli e talora pericolosi, perché anestetizza le coscienze di molti, alimentando un’idea latente e spicciola di controllo, nei singoli individui e di sconcertante onnipotenza, nella collettività; non ultimo, di abnorme, penosa, paura della morte. Per questo motivo, cresce ogni giorno il numero di coloro che tentano, armati magari solamente di un certo spontaneismo, l’avventura di quest’arte antichissima, fragile ma poderosa e, fra l’altro, estremamente difficile. La parola poetica è uno strumento cognitivo col quale l’uomo lambisce il segreto dei fenomeni (esteriori come pure intimi). Ho detto “lambisce”, pensando al più remoto senso etimologico del verbo lambire, ovvero quello sanscrito, “labhate”, acquistare, prendere, con ciò significando che alle cose la poesia riguadagna un’interezza primeva che i tentativi epistemologici frantumano, disperdono; un’interezza di cui misterioso quanto diffuso e irrefrenabile sembra il bisogno. L’uomo necessita di portare sul versante poetico tutto ciò che cade nel raggio dei sensi, non importa se è la Luna, il fiore, il sole, la selva, la siepe, finanche la pernacchia o il culo (non si può non rammentare il dantesco «ed elli avea del cul fatto trombetta» – Inferno XXI, v. 139 – di scolastica memoria!); come dire, fra l’altro, che non esistono oggetti poetici e oggetti impoetici. Di quest’inesauribile necessità umana di ricomporre continuamente il reale attraverso la poesia (lemma proveniente dal greco poiéo, ποιέω, creare, cagionare, condurre, e via dicendo), che, in origine, è canto, si legge nella teogonia esiodea, dove si narra di Ippocrene, una fonte scaturita nel punto in cui uno zoccolo del mitologico cavallo alato Pegaso colpì il suolo. Pegaso era nato dal sangue di Medusa, cui Perseo aveva tagliato la testa. Dunque, Pegaso portava in sé il disordine premusivo, originale, che scorre nell’acqua di quella fonte. Ad essa vanno a bagnarsi le Muse, create da Zeus su invito degli dei, per cantare il creato, dargli senso; si trattava di un canto armonioso, diverso da quello caotico delle sirene, quando non esisteva ancora l’ordine cosmico, né gli dei olimpici ma la stirpe dei Titani. Il mito sta a significare che il mondo, per divenire esistente, necessita di essere detto. L’essere delle cose non è compiuto, finché non si dà una voce che lo esprima, come a dire che il mondo deve essere pronunciato, per avere un senso. Tale pronuncia serba però in sé traccia del caos iniziale, che è rimasto proprio nella composizione poetica. Si potrebbe asserire che il linguaggio della poesia mette in atto una sospensione della funzione denotativa, per stabilire un nesso diretto con i suoi oggetti. Non solo, ma spingendoci un poco più addentro nella questione, vorrei riportare un concetto espresso da Giorgio Agamben, quando definisce l’atto del poetare come «un’appropriazione disappropriante (una negligenza sublime, un dimenticarsi nel proprio)» e, allo stesso tempo, come «una disappropriazione appropriante (un presentirsi o un ricordarsi nell’improprio)». Quella della poesia è «[…] un’esperienza della parola che – senza legarsi denotativamente alle cose, né valere essa stessa come una cosa, senza restare indefinitamente sospesa nella sua apertura, né chiudersi nel dogma – si presenta come una pura e comune potenza di dire, capace di un uso libero e gratuito del tempo e del mondo». La poesia, un sistema altamente polisemico di esprimersi, scardina i rapporti di forza soggetto-oggetto e può essere avvicinata alla lingua materna (il petel della famosa elegia zanzottiana). Il poeta, frequentando questo territorio di indistinguibilità linguistica – e, nondimeno, psicologica – si espone coraggiosamente all’accusa di visionarietà, di inutilità, addirittura di completa inettitudine, soprattutto in quest’epoca di feroce e basso, ovvero qualunquistico, pragmatismo. In quanto alla mia esperienza personale in poesia, essa ha significato la faticosa e talora dolorosa riacquisizione di un me stesso che, per motivi legati agli studi universitari di ingegneria, si era andato atrofizzando, avevo progressivamente alienato, avendo commesso il marchiano errore di credermi adatto a un mondo cartesiano, quadrato, comunque accertabile, potrei dire anche illusorio e miope, qual è quello dei tecnici. Oserei direi che in me (come in altri, d’altronde) hanno agito e agiscono forze opposte a una conduzione stabile della vita. Potrà far sorridere perché giudicabile un tantino peregrina, però mi torna in mente quell’insolita disputa, oggi di valore meramente storico, tra Johannes Kepler e Robert Fludd, alchimista inglese della tradizione ermetica. Tensione tra metodo quantitativo e imponderabilità archetipica della psiche. Successivamente al periodo universitario, durante la tormentosa, anzi disastrosa, permanenza in varie realtà produttive, dove la mia presenza appariva quanto meno distonica, si manifestò prepotente la necessità di tornare a ciò che era stato nelle mie corde, durante la prima giovinezza, quando frequentavo il liceo classico e amavo la poesia, imparare a memoria i versi dei grandi autori, come pure tentare, ma sempre segretissimamente, di scrivere poesie e piccole prose, poi tutte comunque destinate al cestino, per pudore. Forse, la poesia ha sempre rappresentato la mia naturale necessità di sfrangiare un reale reso però da me stesso nitidissimo, attraverso un’insistita e altresì irrinunciabile azione di sfocatura.
2. Gli artisti hanno dei maestri di riferimento. Quali sono i tuoi?
Ho un amore smisurato per il Petrarca, per la sua poetica della lontananza, della solitudine. A seguire, c’è Cavalcanti e l’immancabile Leopardi; fra quelli del novecento, Luzi (non quello degli esiti ultimi, però), Caproni, che mi dà sempre i brividi, il Montale de La bufera e altro, con la sua attualità drammatica e la funzione testimoniale della parola poetica; l’amatissimo Zanzotto, soprattutto quello di Dietro il paesaggio e di IX Ecloghe; Fra gli stranieri, quelli anglofoni che posso permettermi di leggere in lingua originale, Eliot, Dickinson e il compianto Seamus Heaney, con cui ebbi l’onore di conversare, in occasione del Premio Cetona, nel 2006, e alle cui opere sono legato. Fra i narratori, l’irresistibile Bufalino e il Gadda, l’immenso Zola e Musil.
3. Ci vuoi parlare dell’ultimo libro che hai pubblicato.
Si tratta de L’occasione e l’oblio (Stampa2009, Varese, 2019). È costituito da sezioni all’interno delle quali le situazioni, le cose e i vari soggetti comprimari sono legati da un sottile filo narrativo, per così dire; l’io lirico si trova dislocato, attenuato, tende a una relativa dissoluzione su piani temporali e spaziali un po’ indistinti. Questo perché ho inteso dare inizio a un percorso in cui il soggetto non è unico, ma tende a scomporsi nell’alterità, a diventare indeterminato, esattamente com’è la vita, anche se ne vogliamo sovente uno schema (illusoriamente) sicuro e funzionante. Il titolo dell’opera può suggerire una corrispondenza biunivoca tra oblio e occasione, appunto, seppure tra i due maggiormente importante sia il primo, poiché una memoria totale, ad accumulazione continua, rappresenta la morte. Forse, si ricorderà un bellissimo libro di Borges, Funes el memorioso, in cui tale Ireneo Funes vive la tragedia di ricordare assolutamente tutto, il che lo condurrà all’isolamento comunicativo, all’afasia totale, infine a morire. D’altronde, seppure su un piano speculativo affatto diverso e con differenti fini, Nietzsche, nel suo Sull’utilità e il danno della storia per la vita, parla del rischio di riferirsi soltanto alla storia come monumento o come antiquariato, intendendo che ci è permesso vivere attraverso l’infrazione al passato, ovvero attraverso la dimenticanza (selettiva, aggiungerei). Nulla esiste senza il dolore necessario dell’oblio. Ora, essendo arte e vita indissolubilmente legate, si può dire la stessa cosa per l’atto creativo, che, per essere veramente tale, deve dimenticare qualcosa del passato; deve assumersi la grave responsabilità intellettuale dell’eleganza, cioè della scelta dei criteri con cui rinnovare ciò che già è stato fatto, alienandolo, da un lato e, dall’altro, filtrandone opportunamente, con sagacia e accanito studio, i messaggi stratificati nel tempo. Per un autore – cioè uno che scommette spericolatamente sulla propria autenticità – la rottura con il passato è tema cruciale a creare un progresso artistico, poiché i linguaggi dell’arte si usurano, invecchiano, perdono valore, come ogni altra cosa. Ecco, il titolo del libro vuole suggerire questo riflessione filosofica, oltre ovviamente a mandare un messaggio più generico e immediato, quello di non legarsi troppo a un’idea di costanza, perché perniciosa, fatale per l’anima.
4. Hai un nuovo lavoro in programma?
Da tempo, ho completato una lunga raccolta di poesie e prose brevi, ma non credo vedrà la luce presto. Gli editori piccoli e medi non mi interessano granché, ormai, a meno di qualche realtà che, seppure piccola, ha un blasone e chiara fama presso gli addetti ai lavori. In quanto agli editori di grosso calibro, è evidente la loro volontà di compiere operazioni al coperto, con ottime previsioni, se non addirittura garanzie, commerciali, per cui tendono a pubblicare autori‑personaggio, oppure poeti già notissimi, definitivamente consolidati. A prescindere però dalla modesta vicenda del sottoscritto, vorrei soltanto aggiungere che la poesia italiana si presenta oggi come un fastidioso rumore di fondo da cui nessuna voce riesce davvero a emergere, a catturare l’ascolto, salvo episodicamente, forse casualmente, e talora con opere di dubbia qualità, che suscitano qualche perplessità.
5. Per concludere, ci regali una poesia che per te ha un significato speciale?
Sono legato a una poesia di Mario Luzi, Auctor, che apre la famosa raccolta Frasi e incisi di un canto salutare, del 1990, e riporta, con straordinaria acutezza, la silenziosa e oscura sofferenza che macina, per anni, l’animo di chi si trova a dire il mondo poeticamente, costruendone una beltà latente, coniugata a quella che ogni istante appare scontata sotto i nostri occhi e della quale il poeta ha la tormentosa missione di rivelare il valore ontologico, la preziosa luce nascosta.
Non ancora, non abbastanza,
non crederlo
mai detto
in pieno e compiutamente
il tuo debito col mondo.
Aperto –
così t’era
il suo libro
stato gioiosamente offerto,
perché tu ne leggessi il leggibile,
il nero, il bianco,
il testo, i suoi intervalli
per te e per altri, ancora
più inesperti,
che non osavano farlo.
E il molto appreso
dovevi tu
in parola ricambiarlo.
Questo pareva il tuo compito
e stentavi,
stentavi a riconoscerlo.
Né sai perché, dove fosse il disaccordo
che ti ha tritato la vita,
tormentato il canto.