La rana bollita
La chiave di tutto è dunque la conoscenza. Stiamo affrontando restrizioni al momento necessarie, ma a cui non ci si deve assuefare. Così come dobbiamo farci monitorare la salute, dobbiamo a nostra volta monitorare le autorità, esigere che queste rinunce e queste limitazioni siano eccezionali, limitate e non diventino norma. C’è già chi approfitta della situazione per assumere “pieni poteri”, sfruttando il disorientamento dell’opinione pubblica. Sono state adottate misure coercitive, come le restrizioni alla libertà di movimento dei cittadini, in alcuni casi forse persino in contrasto con la Costituzione: vietato uscire di casa, vietato incontrare gli amici, vietato spostarsi da un città all’altra, vietato confortare i malati. Si è persino accettato il dramma di non poter accompagnare i propri morti, sebbene l’assistenza ai morenti e l’onoranza dei defunti siano sempre state considerate sacre in tutte le società umane. Si è trattata di una trasgressione quasi antropologica.
Se l’emergenza dovesse prolungarsi c’è il rischio che alcune libertà vengano viste come perdite collaterali nella guerra al virus. Non tanto la violazione della privacy, quanto piuttosto la limitazione delle libertà civili non deve diventare regola, in nome della salvaguardia della salute personale. Come detto, non dobbiamo assuefarci a situazioni a cui oggi ci ribelleremmo, e farci “bollire” a fuoco lento, senza accorgercene, come la rana di Noam Chomsky. Dovremo rassegnarci a convivere in qualche modo col virus e col pericolo, che non si potrà mai azzerare, a meno di voler abdicare alla vita. Se volessimo eliminare ogni rischio, dovremmo rinunciare a tanto altro, abolire ad esempio la circolazione stradale o i cantieri edili, che causano ancora troppi incidenti mortali. È compito di politici e amministratori mediare tra indicazioni tecniche e diritti dei cittadini, tra economia e sicurezza, minimizzando i rischi.
Come abbiamo visto con gli allarmi degli scienziati sul clima e sulla pandemia, facciamo prevalere il breve al lungo periodo, molto più sensibili alle conseguenze sull’oggi che a quelle sul domani. Più preoccupati dell’attuale situazione economica che di una Terra invivibile tra cinquant’anni. Ma anche più preoccupati della nostra salute di adesso che dei danni economici e sociali per le prossime generazioni. Se ci pensiamo, il virus ci fa più paura anche della violenza umana: oggi ci viene imposto l’uso delle mascherine chirurgiche, che coprono naso e bocca, lasciando liberi solo gli occhi. Durante la stagione degli attentati terroristici, pochi anni fa, chiunque si coprisse il volto veniva guardato con sospetto, come un potenziale terrorista; il riconoscimento facciale era considerato essenziale e irrinunciabile per la sicurezza dei cittadini. Oggi prevale la sicurezza sanitaria, preferendo essere tutti irriconoscibili, nei nostri niqab protettivi.
Nel romanzo ”Inferno” del 2013, Dan Brown narra di uno scienziato miliardario e folle che, per ridurre la sovrappopolazione mondiale, crea un virus da diffondere nel mondo per rendere sterile parte della popolazione. Entra quindi in conflitto con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, conflitto su cui si sviluppa tutto il thriller tipico dello stile di Dan Brown. L’ipotesi avanzata nel romanzo, la sterilizzazione dell’umanità, produrrebbe un grosso problema: ridurrebbe sì gli abitanti, ma ne aumenterebbe enormemente l’età media, lasciando al mondo solo anziani ed eliminando le giovani generazioni. Viceversa il coronavirus fa l’opposto, è meno pericoloso per i giovani che per gli anziani, provocando così un altro conflitto generazionale: per proteggere la generazione superstite del dopoguerra, della ricostruzione bellica, si è fermata la società, l’industria, l’economia, si sono chiuse le scuole, mettendo a rischio il futuro dei millennials, delle nuove generazioni che dovranno quindi rendersi protagoniste di una nuova ricostruzione, quella del dopo-Covid.
(3 – Continua)