Vorrei ricordare in queste poche righe, il ruolo di vero e proprio spartiacque che ebbe nella storia del cinema contemporaneo la cosiddetta trilogia dell’incomunicabilità di Michelangelo Antonioni che, con i film L’avventura, La noia, L’eclisse (che videro la luce tra il 1960 e il 1962) diede veste cinematografica ai temi dell’alienazione e del disagio dell’esistenza borghese, contribuendo a formare quel tipo d’immaginario critico che mise la parola fine alla stagione del “neorealismo” e iniziò ad irrorare le fonti a cui poi si sarebbe abbeverata la contestazione del ’68. Fu anche, infatti, la critica dell’alienazione dell’uomo della società borghese, filtrata filosoficamente dalla lettura dei testi di Marcuse e di Fromm, lo sfondo a partire da cui fu coltivato il sogno di nuove forme di vita radicalmente alternative, emancipate da una società del lavoro, dei consumi e della famiglia livellante e conformistica, tendente a ridurre l’uomo ad un soggetto “unidimensionale”, schiavo di falsi bisogni, inibenti una vita realizzata in tutti gli aspetti e le molteplici potenzialità della natura umana.
E’ difficile negare, con il senno di poi, che i tratti di cattiva astrazione che attraversavano quel sogno ebbero un ruolo importante nel mettere in moto quel processo in cui il concetto di alienazione si è prestato progressivamente ad un uso sempre più dilatato, indifferenziato e con il tempo anche inflazionato. Processo a cui ha fatto seguito la sua marginalizzazione dal dibattito filosofico e politico, fino al punto in cui oggi la parola stessa a volte sembra suonare con il rimando a una “Stimmung’ politica e culturale lontana, affetta da un tratto d’irrimediabile inattualità.
Una parabola, questa, che è corsa in parallelo a quell’esaurimento delle energie utopiche (Habermas) che ha accompagnato, come un rovescio negativo, l’affermarsi dell’ideologia neoliberista negli ultimi decenni.