Cercatele. Saranno in giro per teatri d’Italia – se il virus non ne impedirà l’apertura – saranno di certo on line o potrete ascoltarle in qualche rappresentazione pubblica, in qualche reading. E se non riuscite a trovare la versione che ne ha composto dopo lungo studio e analisi il bravo Fabrizio Gifuni, leggetele comunque.
Sono le lettere del nostro statista più sfortunato, di cui, chi alla fine degli anni settanta del novecento era già nato, ricorda la disperata fine.
Uccisa senza pietà la sua scorta, rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo del 1978 e fatto ritrovare cadavere il 9 maggio, dalla sua prigionia Aldo Moro non ha mai smesso di scrivere. Pagine e pagine di lettere e un lungo memoriale. E già senza prendersi la briga di leggerli, quei fogli contengono una storia: ritrovati dopo mesi durante l’ennesima perquisizione in una delle case dove Moro era stato custodito, vengono pubblicati ma solo in parte. E dopo quasi quindici anni quell’appartamento/covo viene venduto. I compratori fanno dei lavori di ristrutturazione e scoprono che dietro un pannello ci sono cinquecento fogli dattiloscritti: il Memoriale di Moro.
Le lettere e il memoriale ci raccontano l’Italia dei misteri, ci svelano cose che in realtà sappiamo da sempre: l’attenzione implacabile degli USA sul nostro paese durante la guerra fredda, l’impossibilità di aprire a sinistra, anche se nel ’78 il PCI era il partito più popolare in Italia, le trame politiche. Racconti fatti da dentro il cuore di quella DC di cui Moro era presidente quando fu rapito e poi ucciso. Durante il sequestro Moro è oggetto di un vero e proprio processo politico, al quale non si sottrae. E anzi, con lucidità, ripercorre gli anni della Resistenza e poi della politica attiva nella ricostruzione del nostro paese. E poi parla della DC degli ultimi tempi, quelli in cui affannosamente e in prima persona, si apprestava a fare il grande salto verso l’alleanza con il PCI, il cosiddetto compromesso storico.
Quando alla fine, stremato dalla prigionia e senza più la speranza che i suoi compagni di partito facciano qualcosa per salvarlo, si mette a scrivere di loro, degli altri democristiani, li incenerisce uno dopo l’altro con due, tre aggettivi del suo vocabolario sceltissimo e bello. Senza nemmeno il rancore che avrebbe potuto sentire, con il sostegno di una fede incrollabile e persino con ironia.
Ma quello che tocca di più sono le lettere private: alla moglie Eleonora – Norina – con cui ha costruito da trentatré anni una vita d’amore e di stima reciproca e una famiglia solida, ai figli, al nipotino ancora tanto piccolo, al quale raccomanda una serie di piccole cose e “non dimenticarmi”.
In quelle righe si leggono anche la dolorosa trafila di speranza e disperazione e la rabbia perché capisce di parlare a chi non vuol sentire, e perché sa, in fondo, che la sua liberazione potrebbe essere ancora più terribile della sua morte. Eppure crede – e lo scrive accorato – che il suo sangue ricadrà sul paese, che quei personaggi che lo stanno abbandonando ai suoi carnefici risentiranno per tutta la vita del gesto che non hanno compiuto: tentare di liberarlo. Non sarà così. Noi lo sappiamo. La sua morte, sotto un certo aspetto, servirà a tenere al potere ancora a lungo uomini politici che avrebbero dovuto essere processati tanto tempo prima.
Ma la storia non ringrazia e non è giusta. E la scrivono i vincitori.
Moro non ha vinto quella battaglia allora, ma oggi, forse, se le giovani generazioni scaveranno a fondo in quella vicenda, troveranno i germi del nostro sfacelo politico e da lì, potranno ricostruire. E’ per questo che è preziosa l’operazione fatta da Fabrizio Gifuni. Da cercare.
CON IL VOSTRO IRRIDENTE SILENZIO
Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro
ideazione e drammaturgia di Fabrizio Gifuni