A settembre ho trascorso tre giorni a Napoli e casualmente ho scoperto che alloggiavo vicino all’ultima casa abitata da Giacomo Leopardi. La curiosità mi ha spinto a documentarmi.
E’ il settembre del 1833 quando Leopardi arriva a Napoli con l’amico Antonio “Totonno” Ranieri, conosciuto a Firenze due anni prima. Le sue condizioni di salute stanno peggiorando, spera che il clima mite della città possa giovargli.
La prima impressione del poeta su Napoli è favorevole, così scrive al padre pochi giorni dopo il suo arrivo, il 5 ottobre 1833: “la dolcezza del clima, la bellezza della città e l’indole amabile e benevola degli abitanti mi riescono assai piacevoli”.
A Napoli abiterà in diversi appartamenti, inizialmente nei quartieri spagnoli, poi a Palazzo Cammarota al Vomero e infine nel maggio del 1835 al quartiere Stella, poco sopra il Museo Nazionale, in vico del Pero, dove rimarrà fino al giorno della sua morte, il 14 giugno 1837.
In questi quattro anni di soggiorno napoletano, contro le indicazioni dei medici, conduce una vita sregolata, dorme di giorno, scrive tutta la notte, pranza nel pomeriggio e mangia moltissimi dolci nonostante il diabete. La sua passione sono i gelati (ne mangia anche tre contemporaneamente) di Vito Pinto, gestore della Bottega del Caffè in Piazza della Carità, e i caffè zuccheratissimi del Trinacria, ritrovo di letterati e intellettuali, in via Toledo all’angolo con via San Giacomo.
Quando il poeta esce di casa si reca a piazza del Mercatello, diventata piazza Dante nel 1862, alla scuola del marchese Basilio Puoti, accademico della Crusca e compilatore di un Vocabolario domestico napoletano e toscano. Qui incontra un ragazzo che diventerà famoso, Francesco De Sanctis, che scrive: “Una sera egli (Basilio Puoti) ci annunziò una visita di Giacomo Leopardi … quando venne il dì grande era l’aspettazione … Ecco entrare il conte Giacomo Leopardi. Tutti ci levammo in piè, mentre il marchese gli andava incontro. Il conte ci ringraziò, ci pregò a voler continuare i nostri studi. Tutti gli occhi erano sopra di lui…il conte mi volle a Sè vicino, e si rallegrò meco, e disse ch’io avevo molta disposizione alla critica” (da La giovinezza: frammento autobiografico a cura di Pasquale Villari, Morano editore, Napoli 1889).
Quando nel 1836 scoppia il colera a Napoli, Leopardi e Ranieri, per evitare il contagio, si spostano alle pendici del Vesuvio, in una villa a Torre del Greco di proprietà del cognato di quest’ultimo. Nella villa, diventata poi famosa come Villa delle Ginestre, Leopardi compone La ginestra o il fiore del deserto e Il tramonto della luna (compiuta solo poche ore prima di morire).
Rientrerà a Napoli nel febbraio del 1837, quando le sue condizioni di salute sono ormai notevolmente peggiorate. Muore il 14 giugno dopo aver festeggiato con un chilo e mezzo di confetti di Sulmona l’onomastico dell’amico Antonio Ranieri.
La Ginestra e Il tramonto della luna vengono pubblicati postumi nel 1845 all’interno dei Canti dall’editore Le Monnier, a cura di Antonio Ranieri.
La Ginestra, che viene considerato il testamento poetico di Leopardi, si apre con un verso del Vangelo di Giovanni (“E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce“). E’ così che il poeta polemizza con quelle persone che scelgono di vivere in uno stato di ignoranza (nelle tenebre), non tenendo conto dei mali del mondo. La luce è la consapevolezza dell’esistenza di tali mali.
Leopardi giunge alla conclusione che la natura è matrigna e propone una solidarietà fra gli uomini contro gli insulti della natura stessa. La ginestra, pianta umile e resistente, è il simbolo della forza degli uomini quando si alleano in «social catena» contro un destino nemico.
Il Tramonto della luna viene ultimato poco prima di morire. Il componimento svolge un tema caro al poeta, il rimpianto della giovinezza e delle sue dolci illusioni alle quali segue la vecchiaia che le vede appassire prima della morte. Leopardi trae spunto dalla contemplazione di uno spettacolo naturale: il tramonto della luna che paragona al tramonto della giovinezza, ma al contrario della natura che sarà presto inondata dal sole con una luce più intensa e gioiosa, la vita dell’uomo, sparita la giovinezza, non si colorerà più di altra luce.
Qui l’ultima strofa. Il poeta rileva la differenza tra la vita della natura dopo il tramonto della luna, e la vita dell’uomo dopo la fine della giovinezza.
IL TRAMONTO DELLA LUNA
…
Voi, collinette e piagge,
Caduto lo splendor che all’occidente
Inargentava della notte il velo,
Orfane ancor gran tempo
Non resterete; che dall’altra parte
Tosto vedrete il cielo
Imbiancar novamente, e sorger l’alba:
Alla qual poscia seguitando il sole,
E folgorando intorno
Con sue fiamme possenti,
Di lucidi torrenti
Inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
Giovinezza sparì, non si colora
D’altra luce giammai, nè d’altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
Che l’altre etadi oscura,
Segno poser gli Dei la sepoltura.
Mi piace pensare che questi versi, composti sul letto di morte, abbiano dato a Leopardi la consolazione più alta, la poesia, che lo ha accompagnato fino all’ultimo