Qualche considerazione su “La grande bellezza“… a freddo.
Cos’è se non un viaggio attraverso la dialettica tra sacro e profano vissuto dal protagonista Jep Gambardella?
Sorrentino ci fa conoscere Jep all’età di 65 anni, scrittore e giornalista, trasferitosi a Roma da giovane e diventato celebre grazie all’unico romanzo della sua vita: “L’apparato umano”.
A Roma si perde presto nella mondanità di una capitale gaudente e diventa il re delle feste notturne in cui si celebra il culto dell’estetica (ben rappresentato da un “botox party”) all’interno di sontuose ville o su terrazze con viste mozzafiato sulla Città Eterna. Nel frattempo conosce Ramona – Ferilli una spogliarellista quarantenne a cui si lega in qualche modo.
A questi eventi partecipa una sfilata di personaggi usciti dai vari gironi danteschi: nobili ricchi e decaduti, attori e attrici, intellettuali veri e presunti, dive sfigurate dalla chirurgia estetica e giovani ballerine sexy, alti prelati e imprenditori cafoni. I riti profani si consumano tutti tra il tramonto e l’alba della monumentale Roma, ritratta magistralmente dal regista che, bellissima, assiste a questi baccanali, sileziosa e indifferente.
Il secondo “stadio” da cui passa Jep è quello della beatitudine, un traguardo raggiungibile solo dopo essere passato dalla “stazione” dell’abbandono: la morte del suo primo amore e del nuovo amore (Ramona – Ferilli) e l’allontanamento del suo migliore e forse unico amico Romano – Verdone.
Il finale del film si concentra sull’incontro con un altro tipo di vera bellezza, quella trascendentale e interiore, simboleggiata dalla presenza di una “santa”: una suora, simile a Madre Teresa di Calcutta, che ricorda ai commensali durante una cena da Jep, che la vera povertà è quella che si vive e che le radici sono importanti.
Nella scena della sparizione della giraffa, Jep capisce quale sia il trucco della sua esistenza miserabile per ritrovare la sua grande, propria bellezza: abbandonarsi nel miraggio dell’amore giovanile per troppo tempo dimenticato, che sempre più riprende vita nella sua mente.
La pellicola si chiude con la voce fuori campo del protagonista che dice: “E’ tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura. Gli sparuti, incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile”.
La grande bellezza sembra una Dolce vita attualizzata. Nel capolavoro Felliniano c’era ancora un divertimento sincero nella mondanità del boom economico, ora, sembra dirci Sorrentino, la dolce malinconia dell’epoca si è trasformata in una totale vacuità esistenziale e morale. Emblematica da questo punto di vista la sequenza della passeggiata di Jep in via Veneto, ormai strada buia e semideserta, vivacissima invece negli anni Cinquanta quando era popolata da sciami di Vip, che ora invece si nascondono sulle terrazze.
Il film è eccezionale dal punto di vista narrativo, estetico, registico (numerosi i virtuosismi di macchina che distinguono ogni pellicola di Sorrentino), musicale con una sontuosa colonna sonora affidata a Lele Marchitelli, lunga tutto il film, che svolge una funzione empatica nella descrizione delle varie scene sacre e profane, del montaggio (Cristiano Travaglioli) e della fotografia (Luca Bigazzi). Il film è un grandissimo lavoro corale, a cui hanno partecipato tantissimi attori italiani da applausi, a cominciare dal solito Toni Servillo.
In conclusione una “grande bellezza” per gli occhi e le orecchie, difficilmente dimenticabile come un dolce sogno d’amore al chiaro di luna da cui non ci si vorrebbe mai svegliare.