Tolleranza e antipolitica
“Disapprovo ciò che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo.”
Questa celebre frase è attribuita a Voltaire, il filosofo francese del XVIII secolo autore del “Trattato sulla tolleranza”, e viene spesso citata nel confronto politico come paradigma di democrazia e di rispetto delle opinioni altrui.
Sfortunatamente, negli ultimi tempi l’esempio di Voltaire viene seguito sempre meno. Ovunque si discuta di attualità, di politica, o di qualsiasi altro argomento – in radio, in televisione e soprattutto in rete – si assiste a litigi, attacchi e insulti tra chi la pensa diversamente. E ahimé anche il ceto dirigente, la classe politica, quella che dovrebbe dare più di tutti esempio di tolleranza e dialogo, viene spesso coinvolta in queste risse. Sono anzi spesso proprio i rappresentanti della politica quelli che incoraggiano e cavalcano più di altri intolleranza e fanatismo. A volte ci si esprime in maniera sprezzante, sperando di dimostrare così saldezza di idee, mentre invece molto spesso è vero il contrario: meno fondate sono le opinioni, maggiori sono gli insulti e i dileggi, per coprire il vuoto.
Da molti anni si registra una sorta di ribellione di tutti contro tutti, ma in particolare di “popolo” contro “establishment” (o “élite”, se preferiamo il francese all’inglese), categoria non meglio specificata e individuata di solito negli ambiti delle istituzioni, dell’economia, della cultura, della scienza, dell’arte. Una ribellione definita anche col termine generico di “populismo”, che tra l’altro ha portato tre anni fa un miliardario irrispettoso e provocatore alla guida della prima superpotenza mondiale, che ha decretato (fino a nuovo ordine) l’uscita del Regno Unito dall’Europa pur di non sottostare a troppe regole comunitarie, che chiede la chiusura delle frontiere, che elegge chiunque abbia il merito (a volte unico) di stare fuori dai partiti tradizionali e dalla “vecchia” politica.
Sì, perché il populismo deriva direttamente da un altro fenomeno, quello dell’anti-politica, che consisteva nell’accusare i governi di essere una casta privilegiata e nell’incolpare politici e istituzioni di tutto ciò che non funziona. Quante volte si sono sentite frasi come “l’Italia è un Paese meraviglioso, se non fosse per i suoi politici” oppure “questo governo corrotto è la rovina dell’Italia”! I più popolari talk-show si collegavano con piazze dove, davanti ai microfoni, la gente faceva a gara nell’urlare invettive contro la casta, contro l’élite, contro i “poteri forti” (altro termine molto popolare tra i populisti), contro lo Stato assente, incapace o ladro.
Va detto che queste denunce sono state spesso legittimate dai fatti: sembrerebbe quasi che le poltrone del potere abbiano lo speciale effetto di montare la testa e dare vertigini di onnipotenza a chiunque le occupi.
E così stiamo sempre tutti a lamentarci, a chiederci “ma lo Stato dov’è?”, convinti che noi e lo Stato siamo due entità diverse, contrapposte, se non addirittura in conflitto. Non pensiamo mai che, in realtà, lo Stato potremmo essere noi. E non solo perché siamo noi che eleggiamo i nostri rappresentanti nelle istituzioni, che a loro volta scelgono chi ci governa. Ma soprattutto perché lo Stato, la nostra Repubblica (“res publica” = cosa pubblica) nasce proprio dai nostri comportamenti, dai nostri gesti quotidiani, che fanno la cultura della nazione e quindi anche del suo governo. “Lo Stato siamo noi” non è un modo di dire astratto e retorico, ma dovrebbe essere la guida alle nostre azioni quotidiane.
Purtroppo la contrapposizione tra cittadini e istituzioni (o tra cittadini e politica) crea quel cortocircuito per cui nessuno si sente mai responsabile di qualcosa, provando nel contempo avversità per tutto ciò che è pubblico. Senso civico carente, scarso rispetto delle regole, nessuna tutela dei beni comuni, visti come qualcosa da sfruttare o distruggere, mai da proteggere. Le tasse, poi, meglio cercare di evaderle quanto più possibile, tanto pagherà qualcun altro.
Il cortocircuito esplode poi quando sono i partiti populisti ad andare al governo: a quel punto non ci si può più scagliare contro lo Stato o i “poteri forti”, perché si è preso il loro posto. Difficile fare opposizione a se stessi. Si devono trovare allora altri nemici, altre minacce, altri capri espiatori, contro cui scagliarsi e di cui incolpare tutto ciò che non funziona: le istituzioni europee, gli organi di garanzia, qualche Paese straniero, gli immigrati, le minoranze…
(1- Continua)