Qualche riga nel nostro manuale di letteratura italiana al liceo, forse un paio di pagine nell’antologia letteraria di riferimento. E le pagine scelte raccontano la terra brulla e la durezza violenta della vita in un’isola ai confini del regno, difficile da raggiungere, da cui difficile è allontanarsi.
Eppure da quell’isola, bella come poche terre al mondo, chiusa nelle tradizioni e negli usi arcaici di un popolo orgoglioso e onesto, lei è andata via. Non solo si è trasferita a Roma nel gennaio del 1900, affrontando la traversata dei suoi sogni, ma le sue opere hanno valicato ben altro spazio arrivando a convincere l’accademia di Svezia di essere degne del premio più prestigioso, il Nobel per la Letteratura.
Lei è l’unica italiana ad essere stata insignita di quel premio per quella disciplina. La seconda al mondo, poiché un’altra donna l’aveva preceduta, la svedese Selma Lagerlof.
Grazia Deledda era nata nel 1871 e aveva frequentato la scuola fino alla IV elementare, perché alle ragazze sarebbe stato più che sufficiente sapere leggere scrivere e far di conto, il loro era un destino segnato: sposarsi, crescere i figli, ubbidire al marito e servirlo nella buona e nella cattiva sorte.
La sua era una famiglia “che aveva biblioteca” – lo dice lei stessa nel discorso di ringraziamento a Stoccolma quel 10 dicembre 1927. La biblioteca di famiglia in effetti le permette di appassionarsi alla letteratura fin da bambina. Grazia comincia a scrivere a tredici anni. Ma non è la biblioteca, né l’incoraggiamento dei familiari (ché in realtà non le impedirono di procedere nella sua passione, ma neppure la sollecitarono a continuare), a metterla sulla strada della letteratura, piuttosto una consapevolezza profonda e quasi il segno di una strada già tracciata, e una determinazione che raramente s’incontra in ragazze del suo secolo. Scrivere era l’unica cosa per cui valeva la pena di vivere. Ancora ragazzina spedisce lettere a tutti quelli che potrebbero aiutarla a pubblicare le sue novelle, che raccontano la Sardegna e le anime tormentate che vivono in quella terra scabra vagolando alla ricerca di consistenza e di determinatezza, anime di pastori, di contadini, rinchiuse in strutture familiari invalicabili, fatte di regole ferree radicate nei secoli. Anime che apparentemente sembrano rappresentare solo la realtà dell’isola, in realtà incarnano l’universale, ed è qui che risiede la grandezza della scrittrice, che Momigliano paragonerà a Dostoevskij.
Il padre di Grazia è un piccolo proprietario terriero e imprenditore, la madre una donna pia molto legata alla tradizione religiosa. La famiglia vive in una grande casa a Nuoro: tre sorelle e due fratelli. Il più grande, Santus, studia medicina ma, costretto a prendere farmaci per alleviare il dolore causato da un incidente, finisce intossicato e morirà giovane. Il secondo, Andrea, a volte fa la cresta sui conti del padre, ma si porta dietro la sorella bambina nelle passeggiate a cavallo sui monti dell’Hortobene e poi la sosterrà nella sua passione. Le sorelle, da adulte, la raggiungeranno a Roma e con loro Grazia non smetterà mai di parlare il sardo, quella lingua che non è un dialetto e che la costringe fin da subito a una traduzione del pensiero perché sia intelleggibile a tutti.
Pubblica a puntate sulle riviste, perché le sue novelle sono belle e riconosciute tali, e poi pubblica in volume, le raccolte dei racconti e i primi romanzi. È un momento in cui altre donne si affacciano alla scrittura – da Ada Negri a Sibilla Aleramo – con una forza forse diversa dalla sua. Matilde Serao, che ha già fondato un paio di giornali, recensisce i suoi lavori e con grande acume ne riconosce l’aderenza ad un canone alto.
Per fare il salto di qualità però Grazia ha bisogno di raggiungere la sua Gerusalemme liberata, Roma, laddove ferve la vita e la letteratura è di casa, nei buoni salotti della borghesia in ascesa. C’è un unico mezzo che può aiutare una ragazza ormai in là con gli anni – ne ha quasi 29 – a conquistarsi l’accesso al continente: sposarsi. Grazia intreccia un paio di liaison soprattutto epistolari con giovani intellettuali del luogo, ma sposare un sardo, ancorché colto o ricco, non le servirebbe a niente. A Cagliari, in casa di Maria Manca, una torinese che ha sposato un sardo e che dirige la rivista “La donna Sarda”, incontra quello che sarà il suo lasciapassare per la vita che vuole vivere: è un “signorino” di 36 anni, del nord Italia ma impiegato a Roma ed è anche appassionato di musica lirica, ama i salotti e i cenacoli intellettuali. Si conoscono a ottobre e a gennaio si sposano e veleggiano verso la città eterna….
(a seguire…)