Continuiamo a presentarvi i grandissimi del genere jazz, anzi, le grandissime, come Ella Fitzgerald.
Non ci sono nel Novecento altre cantanti che abbiano avuto in dote un timbro del genere. La sua voce era inimitabile, le sgorgava dalla gola come acqua cristallina dalla sorgente, in maniera naturale, senza sforzo, senza prepotenza. Un dono di cui a volte sembrava inconsapevole. Quelle potenzialità sbalorditive, dovette riconoscerle anche il suo band leader che all’inizio era stato molto riluttante, definendola “goffa e incolta”: non aveva capito che Ella non si sarebbe mai adattata al ruolo di femme fatale.
La Fitzgerald non aveva il sex appeal di Peggy Lee, l’esuberanza di Dinah Washington, il tormento di Billie Holiday, la sua forza era nella purezza del tono, nella dizione impeccabile, nel fraseggio, nell’intonazione, nella straordinaria abilità d’improvvisare e, più avanti nella carriera (dal 1945 con Flying Home), in quello scat formidabile, inimitabile, inarrivabile che le permetteva di dialogare con l’orchestra senza parole – voce allo stato purissimo, il più sublime degli strumenti.
Dunque nessuna meraviglia che il suo primo successo del 1938, A-Tisket, A-Tasket, fosse poco più o poco meno di una filastrocca; qualsiasi verbo rischiava di diventare inconiugabile pronunciato da una voce così ammaliante e funambolica, dunque a nessuno parve un problema che le 150 canzoni incise dalla Fitzgerald con Chick Webb (alla morte del maestro, nel 1939, fu proprio lei ad assumere la guida della band che diventò Ella and Her Famous Orchestra) fossero prive di contenuti letterari e ricercatezze linguistiche tanto erano straripanti di swing – sulla falsariga di (If You Can’t Sing It) You’ll Have to Swing It (Mr. Paganini) tanto per intenderci. Artista geniale e infaticabile al punto da non rinunciare a nessun territorio musicale: dal pop alla canzone d’autore, dal blues al gospel, dal rhythm&blues alla bossa nova, e sempre in chiave jazz.