Un borghese piccolo piccolo, per la prima volta a teatro, a partire da un grande testo di Vincenzo Cerami, passando attraverso un indimenticabile film di Monicelli ed uno straordinario Alberto Sordi. Giovanni Vivaldi, un piccolo borghese con un’unico desiderio, sistemare il figlio Mario, ragioniere da poco, nel ministero dove lavora da 30 anni. Ed ecco che il testo diventa attualissimo. La raccomandazione, e non solo. Il povero borghese, pur di ottenere quel posto fisso, è pronto a tutto, anche ad aderire alla Massoneria ma il Destino farà saltare tutto. Mario, vittima accidentale di una sparatoria, morirà colpito da un proiettile. Amalia, umile moglie di Giovanni, alla notizia, sarà colpita da una trombosi che la condurrà alla morte. Giovanni, riconosciuto l’assassino, si farà giustizia da solo. Un dramma familiare all’interno di un dramma sociale intriso di corruzione. Il personale tornaconto quasi geneticamente determinato nell’animo del cittadino italiano. La raccomandazione come qualcosa che lo allontana dall’essere uguali di fronte alla legge. Il do ut des come prioritaria modalità relazionale. E l’Italia pare non essere affatto cambiata dalla stesura del romanzo. La maestria teatrale di Massimo Dapporto pare non rendere pienamente quel personaggio così amaramente cinico, descritto nel romanzo, pur rappresentandone bene l’aspetto grottesco. Il dolore non è così graffiante, la gioia e la tenerezza un po’ sottotono. Il ritmo non molto serrato, pare interrompersi nel continuo passaggio da un’ambientazione all’altra. Forse colpa del ricordo di quel grande capolavoro che fu di Monicelli e di uno straordinario Alberto Sordi? E poi le “pallette” vicino alla bocca, i microfoni, che rubano la voce all’attore e la consegnano, appiattita e priva di anima, all’altoparlante, ed è ciò che arriva o non arriva allo spettatore.